Pensieri e riflessioni a 12 anni dal terremoto

L’Aquila dodici anni dopo il sisma e in piena pandemia globale è una città trasformata che ancora cerca sé stessa, senza trovarsi. Il Centro storico, luogo dell’identità e della comunità, non ha ancora una sua residenzialità e quindi una sua vita. Mancano i piccoli negozi, le botteghe, gli ombrellai che prima c’erano mentre aprono gioiellerie e altri negozi di lusso inaccessibili ai più.

Sarà centrale invece, ma lo era già da ieri in realtà, promuovere politiche che puntino ad una residenzialità accessibile del centro. L’intervento pubblico deve garantire che questa città torni viva come era, invece di essere l’effetto di un’accelerazione della “gentrification”, quale può essere inteso il sisma.

Tutto questo mentre nella periferia, nata per lo più dopo il sisma, dove vive la stragrande maggioranza della popolazione, mancano i servizi più essenziali e il disagio è sempre più forte.

L’Aquila ha bisogno di aprirsi per rinascere, di dare parola ai giovani, alle donne, ai tanti migranti arrivati per la ricostruzione che sono nuova cittadinanza, ma troppo spesso lasciati ai margini, senza diritti né progetti di integrazione per sé e i loro figli.

OLTRE LA RETORICA

La retorica del lutto, della resilienza, del ritrovato senso di appartenenza comunitaria sono forse, il 6 aprile, quasi indispensabili. Ma non bisogna dimenticare quello che queste tre stelle polari del nostro dopo-sisma hanno significato in un primo momento.

All’inizio, nei primi anni, sono state soprattutto un impulso costante a vivere diversamente lo spazio pubblico, a praticare forme di resistenza e di auto-determinazione che per molti versi non avevano precedenti della storia della nostra città.

Bisogna ricordarsi come, nel tentativo di ottenere dalle istituzioni, locali e nazionali, quello che era dovuto loro, i cittadini aquilani siano stati in grado di dare vita a un sommovimento sociale, politico e culturale che ha lasciato il segno; non bisogna fare sì che quell’eredità sparisca nel seno della nuova normalità che sta affermandosi negli ultimi anni e di cui pure peraltro non si può fare a meno.

Il rischio, altrimenti, è tornare a quello che la città era prima, un luogo di rassegnata conservazione, di egotismo collettivo, di sistematico rifiuto del nuovo, perdendo di vista quello che abbiamo scoperto all’epoca: che si poteva fare qualcosa delle nostre vite e non limitarsi, semplicemente, ad accettare il dato di fatto delle decisioni prese dall’alto.

È chiaro che l’attuale fase pandemica rende tutto più difficile. Ma dobbiamo essere fiduciosi. D’altronde, quando questa maledetta pandemia volgerà al termine, ci sarà senz’altro una risposta, in termini di vitalità collettiva, ovunque, e forse anche di mobilitazione politica, che oggi non possiamo nemmeno immaginare.

Bisogna farsi trovare pronti. Non può finire che tutti, o quasi, accettino una condizione di passività – di controllo sociale, di repressione, di dissuasione più o meno violenta del dissenso – sempre più mortifera e totale. Non può. E anzi, non deve.

LA MEMORIA, FINALMENTE

Il dodicesimo anniversario del terremoto del 6 aprile si contraddistingue innanzitutto per l’istituzione del Parco della Memoria a Piazzale Paoli, luogo centrale massacrato dal terremoto in cui si sono verificate tante morti di cui tante morti giovani purtroppo.

In dodici anni la città non era riuscita ad avere un luogo, un monumento che – come ogni dispositivo di questo genere – aiutasse la memoria e l’elaborazione del lutto.

Adesso c’è (anche se in realtà i lavori non sono conclusi). Nello specifico è costituito da un obelisco e da tutti i nomi di chi quella sera ci ha lasciati. Il ritardo con cui arriva è vergognoso e la dice lunga sulla rimozione che ha agito da subito nei confronti della morte, con cui si sono confrontati invece i parenti delle vittime. Questo piazzale della memoria non serve a loro (che hanno scolpito nel loro corpo la mancanza e la morte del proprio caro), ma serve per la città.

Eppure non sarà inaugurato il 6 aprile. Lo hanno chiesto i parenti delle vittime stesse. A causa delle restrizioni speciali per il Covid sarebbero potute essere presenti solo poche autorità. Il comitato parenti delle vittime allora ha chiesto venga inaugurato quando le restrizioni (almeno in questa forma) cesseranno, in modo che sia presente la città.

L’AQUILA GRANDE MADRE

La città sospesa di Lucio Agnifili 2016

Un terremoto cambia drasticamente l’abitare, spezza il rapporto di fiducia tra te e la tua casa, o tra te e qualsiasi cosa simile ad una casa. Significa separarsi ogni giorno. Imparare soltanto a sopravvivere e immaginare. Fino a che restano le immagini soltanto. Il supplizio, l’agonia della memoria, che tutto chiede mentre inevitabilmente fugge. Che a fatica lascia qualcosa alla vita, eppure tutto vuole riprendersi per vivere. A volte tutto questo fa paura, altre invece insegna persino a essere tu la sola e robusta dimora di te stesso.

L’Aquila per me è da sempre una città-piovra, che ti cattura nei suoi tramonti, nei suoi vicoli e nella contraddizione continua che porta tra follia e “decoro”. Ho provato tante volte ad andare via e sono le stesse in cui poi sono tornata, perché i posti li fanno le persone che li vivono ed io in quelle persone c’ho sempre creduto. Croce e delizia, malattia e cura.

Siamo stat3 per anni il più grande cantiere d’Europa, un formicaio di persone a lavoro per ricostruire che cosa? Le case, sì. Le scuole, forse. La conoscenza? La vita? Non c’è città in Europa che abbia visto piovere così tanti soldi pubblici destinati allo sviluppo. All’Aquila dovremmo lavorare tutt3 e bene con questo fiume di milioni. E invece è per lo più impercettibile l’effetto sul territorio di tutto questo denaro. Che fine hanno fatto 319 milioni stanziati in soli 8 anni per questa città? Che ricaduta hanno avuto? Quanto è aumentata l’occupazione? Quanto è migliorata la prevenzione? E la qualità del nostro vivere? Qual è la regia politica di tutto questo?

In questo dodicesimo anno, così strano, così stretto, troppo stretto per trovare le parole, utopicamente immagino che quella città-piovra possa trasformarsi ancora in una grande madre che accoglie in sé futuro, innovazione, pensiero diverso, possibilitá, strumenti, servizi, offerte, per tutt3. Abbiamo bisogno di tornare a credere, abbiamo bisogno di motivi per restare, abbiamo bisogno di smettere di scappare ed essere qui ed ora la casa di noi stessi, magari sì, costruirla insieme.

UNA CITTA’ ANCORA DA SCHIUDERE

L’Aquila è ciò che eravamo, per la maggior parte di noi è anche ciò che siamo e che saremo. Per questo bisogna trovare l’onestà di affermare con forza che come comunità abbiamo sprecato 12 anni e un fiume di soldi mai visti in Europa per fare una città che oggi è meno equa e più brutale di 12 anni fa.

Credo che la responsabilità di questo sia di tutti gli strati della comunità, da chi comanda a chi rimane in silenzio [a proposito di silenzi] o spera di andare semplicemente un giorno al posto di chi comanda. Credo che dopo un primo periodo “drogato”, in cui pensavamo che dinamiche assolutamente fuori misura fossero diventate la normalità, ci si è resi conto che è anche la società civile dell’Aquila ad essere, per lo più e con le dovute eccezioni, autoreferenziale e conservatrice.

Penso che anche questo abbia contribuito a creare una città bella da vivere per un certo ceto medio-borghese, e difficile da comprendere (e persino definibile come “città”) da chi non ha gli strumenti culturali ed economici per viversi questo posto come gli altri. Quello che mi viene da dire è che con le sue dimensioni socio-urbanistiche, frutto di precise (sbagliate) scelte politiche, L’Aquila soffra ancora di più la chiusura a bolle caratteristica già in generale del nostro tempo, fatta di ego, mitomania, persone che si autoconvincono le migliori e le peggiori del mondo. Credo ci sia un netto stacco tra le bolle del centro e quelle delle periferie, tra quelle delle periferie e quelle delle frazioni e dei paesi. Luoghi, gente, contesti e vite diverse. Troppo.

Opportunità mancate neanche una via intitolata alle vittime del 6 aprile 2009. Non dove poter raccontare e ascoltare cosa è stato a chi non l’ha vissuto, dove cercare di capire gli errori che hanno portato a questo disastro e che si stanno ripetendo, in buona parte, anche con la pandemia.

E arrendersi? Mai. Tenacia e determinazione, sempre. L’unica via per sopravvivere e cambiare micro-mondi che possono insieme trasformarsi in macro-mondi è coltivare bene e sempre più oltre, mirando consapevolmente a penetrare le bolle e non a cercare conforto in esse, attraverso l’unica strategia che può far crescere: l’organizzazione pianificata, l’amore per il giusto, il sogno di una città e di un mondo migliore.

L’ANNIVERSARIO DEI SILENZI

Questo per me è l’anniversario dei silenzi.

Il silenzio di chi adesso ha un posto fisico per ricordare, per elaborare, dopo che posti e simboli non sono mai mancati ma sempre nati e realizzati da cittadini soli;

il silenzio dei vicoli del centro ricostruiti e non abitati, il silenzio delle zone del centro e dei comuni di campagna dove ancora di ricostruzione non si parla;

il silenzio di quelle parti di città abbandonate al degrado,

il silenzio in cui si muore di overdose dentro il bagno di un terminal,

ma più di tutti il silenzio sulla morte di due operai stranieri impegnati nella nostra ricostruzione, che vengono qua nel tentativo di crearsi una loro vita, che a dodici anni di distanza ha dato vita ad una nuova generazione, non vista, scansata, che dà fastidio, che per rompere il silenzio si mette nei guai.

IERI, OGGI, DOMANI(?)… IL PROFITTO

A me viene da dire che purtroppo un certo modo di gestire le emergenze in maniera poco trasparente e affaristica nonostante tutto é rimasto, come dimostra questa pandemia. Anzi sono rimaste proprio le stesse persone, perfino Bertolaso e Gabrielli! Nonostante tutti gli scandali e i disastri che hanno combinato a L’Aquila.

Anche in questa emergenza e anche di fronte al clima di terrore creato durante questo anno (“é come una guerra!”), poi a prevalere é sempre la logica del profitto, come dimostra il fatto che il brevetto sul vaccino le case farmaceutiche col cavolo che lo danno. Il loro diritto ad arricchirsi viene prima del diritto alla vita di milioni di persone.

APRIRE IL CUORE

Questa è una giornata che lascia sempre un po’ di amarezza, anche dopo 12 anni, ne sentiamo il peso, chi più , chi meno, chi forse in maniera amplificata dal filtro “isolamento”…

Anche stavolta penso non ci sia nessun problema a lasciare aperto il cuore e a farci passare tutte le emozioni, anche quelle meno allegre, perché è segno di intelligenza, perché le possiamo osservare, nominare e avere così meno paura.

Ed è palese che, se il mio cuore è rimasto aperto sino ad oggi è grazie luoghi come CaseMatte e l’Asilo occupato.

Soprattutto grazie alle persone che li hanno pensati, li hanno desiderati fino al punto di farli vivere (me compresa). Luoghi in cui non è mai mancato il calore umano, la risata, la comprensione. Luoghi che ci hanno fatto pensare, amare, crescere e adesso, anniversario del terremoto + filtro pandemia: sentire anche meno isolat3.

QUALE ARIA STIAMO RESPIRANDO?

Vivere il centro dopo 12 anni vuol dire non avere luoghi di cultura, aggregazione e socialità che non siano chiese o pub, a parte pochissime e resistenti realtà. Non ci sono più, ad esempio, la Biblioteca Provinciale, ora diventata regionale, e il Teatro Comunale: la prima ancora dislocata nella periferia est, il secondo in fase di ricostruzione, la cui fine è stimata al 2023. Avere più accesso alla cultura, all’arte, alla musica, alla socialità significherebbe vivere in una città più aperta e dinamica, che offrirebbe respiro e vita a chi va a cercarli altrove e a chi in questa città ci sta crescendo, forse anche delle opportunità a chi vive marginalizzato e a chi muore perchè l’unico rifugio che trova è quello della droga.

Decidere di trasferirsi in centro dopo 12 anni dal terremoto oltre che vedere bellezza e macerie vuol dire anche avere coraggio e resistere alle molteplici deterrenze. Nella pratica significa aspettare 3 mesi per l’allaccio dell’adsl perché molte case sono pronte, i sottoservizi spesso ancora no.

Vuol dire respirare polvere e benedire la mascherina, la domenica respirare. Il lunedì reiniziare ad ascoltare le voci e assistere da spettatrice frastornata e speranzosa al frenetico lavorare degli operai.

Vivere nel cantiere più grande d’Europa vuol dire avere un solo studio, ed uno appena partito, che valuti la qualità dell’aria in prossimità dei cantieri, quella che respiriamo… Vuol dire sentire dentro i polmoni la poca attenzione che si presta alla cura e all’importanza degli alberi e del verde in città: su Via XX Settembre ad esempio, quando nel 2015 una (ri)piantumazione “intelligente” avvenuta dopo la ricostruzione dei palazzi, è stata eliminata.

“Dovunque sia possibile far vivere una pianta dovrebbe essercene una” scrive in un suo libro Stefano Mancuso.

La qualità dell’aria che respiriamo è alla base della qualità della vita che viviamo.

Cosa si è progettato in questi 12 anni e si sta progettando in tal senso nel cantiere più grande d’Europa?

NELLA MORSA DELLA TEMPORANEITÀ

Personalmente il terremoto è stato uno dei vari ‘sliding doors’ della mia vita, uno di quegli eventi che sterzano il corso delle cose.

Quello che è diventato ancora più forte e chiaro da quel giorno è il carattere temporaneo di ogni cosa, che la materia a cui facciamo riferimento implica una continua trasformazione, un’alternanza di continui “prima e dopo”, che tutto ha una durata limitata nel tempo e non è sufficiente saperlo è necessario assorbirlo dentro di se, che ci piaccia o meno.

Qualsiasi evento comunque, anche la terra che frana sotto i nostri piedi, occuperà un intervallo di spazio, avrà una durata, anche quando la nostra percezione sembrerà volerci convincere sia assoluto, non lo sarà (?).

La temporaneità è diventata anche la scelta di non mettere radici, sradicarmi dall’attaccamento per i luoghi, dagli automatismi che questo comporta, da qualsiasi forma di dipendenza per questo o qualsiasi altro posto.

La grossa quantità di macerie e la poca di ciò che considero bellezza mi davano la sensazione che si riducesse notevolmente l’ampiezza del mio orizzonte visivo e non solo, sentivo limitassero gli spazi dei miei movimenti e dei pensieri, le molteplici possibilità di variazione di prospettiva.

La grossa quantità di macerie e la poca di ciò che considero bellezza mi davano la sensazione che si riducesse notevolmente l’ampiezza del mio orizzonte visivo e non solo, sentivo limitassero gli spazi dei miei movimenti e dei pensieri, le molteplici possibilità di variazione di prospettiva.

PERCHE’ AMO L’AQUILA

Lascio anche il mio pensiero. È triste ma è il pensiero che mi sovviene in questo tempo di sindemia.

In realtà L’Aquila la amo con il suo sole, con la sua luce, con tutte le bellissime persone che ho avuto il modo d’incontrare. Amo L’Aquila per il suo altissimo quoziente intellettivo, per la sete di sapere che traspare, per le sue tante librerie, per il suo gelato buonissimo, per i tatuaggi di Sasha che porto sulla pelle, per Collemaggio, per il suo pavimento cocentrico, per tutta l’arte sacra così ben custodita al MUNDA, per ogni cannella della sua fontana, per l’oro dei faggi, per le sue montagne, per la gentilezza delle sue persone, per le strette di mano e gli abbracci, per le risa dei bambini a scuola e per tutta la loro curiosità… perché L’Aquila è anche tutto questo per me… per cotanta bellezza… per tutte le volte che al tramonto scendevo da Lucoli per venire a CaseMatte e mentre salivo verso Collemaggio vedevo le cupole delle chiese e tante gru e pensavo che insieme… tutte e tutti… ce la possiamo sempre fare se continuiamo a credere in un mondo migliore.

Good night

Era verso la seconda metà di gennaio del 2018. Come ogni giovedì sera, Amelia scendeva in auto da ciò che restava di Amatrice. Appoggiato sul sedile a fianco a lei qualche vasetto di yoghurt, della scamorza e dello stracchino stagionato, specialità da lei stessa prodotte che mi portava sino a casa a Lucoli, una piccola abitazione incastrata tra ciliegi selvatici e faggete color oro in autunno. Insieme ci recavamo al cinema dopo aver mangiato qualcosa in compagnia.

Sino a qui potrebbe sembrare la routine di due donne che s’incontrano regolarmente, la narrazione della loro amicizia ma c’è qualcosa intorno a loro di tangibile ed intangibile che il lungo buio delle serate invernali sembra voler nascondere… le macerie ed i ricordi.

Scendiamo da Lucoli verso il centro città… Piazza Fontesecco Palazzetto dei Nobili per il L’Aquila Film Festival. Nessuna delle due conosce o meglio riconosce la strada. Tra banchi di foschia, macerie e lacrime si fatica a procedere. Ad Amelia tutti quei ponteggi, le crepe, i mattoni ammassati, lembi di tende che ondeggiano dietro a vetri che non ci sono più da 9 anni oramai, porte storte, gradini mancanti, grosse buche… un zigzagare per cercare il festival mentre ci perdiamo sempre di più. Amelia piange e domanda… “Se L’Aquila è ancora così dopo 9 anni, che ne sarà di noi?” ma io non so risponderle.

Lasciamo l’auto e procediamo a piedi, l’aria fredda della sera ci aiuterà… accelleriamo il passo… vorremo arrivare presto… è un pochino come camminare assieme a dei fantasmi… i ricordi di tutti rimangono sospesi nell’aria e tu li sfiori… ti fai sfiorare pur non conoscendo le singole storie… di tante macerie.