Gestione Gabrielli: sintomo di una democrazia in crisi

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Riscontriamo con piacere che Gabrielli ha deciso di rispondere alla nostra lettera di qualche giorno fa, in merito alla sua nomina a Coordinatore delle attività del Giubileo. Nonostante questo, non ha saputo o non ha voluto leggere con attenzione quanto abbiamo scritto.

Non pretendiamo di sostituirci al giudizio dei tribunali. Le infiltrazioni mafiose, e gli altri scandali (più o meno rubricabili in termini legali: si tratta anche sempre di questioni etiche) che si sono verificati durante il periodo in cui lui fu prefetto della nostra città e vice-commissario nella gestione del post-sisma, non sono da noi presentati come effetti diretti della sua azione.

Quello che contestiamo, e che non ci stancheremo di ribadire, è la pericolosità intrinseca del modello di gestione delle emergenze che in quell’occasione è stato dispiegato – e al quale Gabrielli, evidentemente, ha prestato (come egli stesso rivendica) tutte le sue energie e di cui, in conformità ai ruoli che ricopriva, ha avallato di fatto tutte le nefaste conseguenze. Insomma, la responsabilità di quello che è successo (e continua a succedere nella nostra città) è una responsabilità anzitutto politica, e solo secondariamente giudiziaria.

Questo modello gestionale si basa in effetti su un meccanismo tanto semplice quanto problematico: l’idea che di fronte alle situazioni emergenziali sia lecito, e anzi doveroso, reagire con una sospensione, parziale ma sostanziale, dello stato di diritto. È questo il momento in cui vengono nominati e convocati i “commissari” e i loro aiutanti, coordinatori speciali e servizi d’ordine, il cui profilo puramente tecnico non è che il segno di un equivoco (chiaramente prodotto ad arte) che caratterizza la politica in Italia e che si fonda sulla crescente delega delle decisioni di carattere propriamente politico (vale a dire, che riguardano la collettività) a una classe di tecnocrati. Certo, si dirà, la loro legittimità dipende dalle istituzioni democratiche di cui sono espressione. Il punto, nondimeno, è che una democrazia non può, pena la più flagrante delle contraddizioni, contenere i termini della sua messa tra parentesi.

È un problema pratico, prima ancora che teorico: la tendenza diffusa a revocare i più elementari diritti civili e politici (come è accaduto qui da noi, subito dopo il terremoto: fatto sul quale Gabrielli si è guardato bene dal replicare) è all’origine di una metamorfosi autoritaria della democrazia, sia pure nella forma “dolce” e poco appariscente dei “commissariamenti”, che non può non destare il sospetto di chi abbia almeno un po’ di memoria storica.

Una volta, lo stato d’eccezione (la sospensione dell’ordinamento giuridico normale) investiva intere nazioni, come accadeva con i totalitarismi. Oggi, nel nostro Paese, si applica questa misura localmente, ma con una frequenza e un’intensità non meno preoccupanti che in passato. Quando infatti il potere mette in discussione, senza volerlo dare a vedere, gli stessi principi che dovrebbero garantire il suo esercizio legale, è allora che l’ingiustizia trova le condizioni più favorevoli alla sua diffusione incontrollata.

È questa formula ormai paradigmatica che Gabrielli incarna simbolicamente e che con la nostra lettera volevamo denunciare. Lui che da prefetto dell’Aquila ha sposato l’operato del Dipartimento di Protezione Civile di Bertolaso, divenendone poi l’immediato successore. Per chi è convinto infatti che la democrazia non sia un valore acquisito ma un processo che va ribadito e riconquistato giorno per giorno (altrimenti, come qualsiasi altro “bene”, tende a degenerare), la sua nomina per il Giubileo non deve allora passare inosservata.

L’indifferenza, e anzi il consenso bipartisan che essa ha saputo suscitare, sono soltanto la riprova ulteriore della scarsa affezione che le nostre istituzioni nutrono nei confronti della democrazia reale (e non semplicemente della sua messa in scena mediatica).

Anche di fronte a una catastrofe naturale, come il terremoto dell’Aquila, o a uno dei tanti (troppi) cosiddetti “grandi eventi”, non è tollerabile che si decida sopra le teste di chi sconterà poi effettivamente quelle decisioni. Una comunità, nazionale o locale che sia, deve poter avere voce in capitolo, soprattutto in circostanze del genere, quando ne va non soltanto di provvedimenti circoscritti ma di interventi che mutano in profondità il suo stesso volto.

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