16 giugno..L’AQUILA

VOLANTINO TASSE a4

Un commento

  1. Trento, via Verdi, bar Duomo(per me, Bar Mauro Rostagno), ore 17 di sabato 5 giugno.Fine del viaggio a “L’Aquila e ritorno” in bicicletta. Chilometri percorsi 2.254. Mi aspetta il ghevarista Luciano, mio figlio Daniele e mia figlia Marta più alcuni amici di passaggio. Trento è da giorni in festa. Fa sfoggio non L’Aquila(simbolo di Trento), ma lo scoiattolo(simbolo del festival dell’economia-al 5° anno).Tanta gente che passeggia e ascolta, schermo gigante in piazza Duomo e tante parole che con la vita dei “dannati della terra” non centrano niente.
    Provo a raccontarvi invece come è andato il viaggio:
    Ci eravamo lasciati a Rieti che dista da L’Aquila qualche chilometro(75) nella famosa statale 17 (cantata da Guccini). Prendo la direzione per Avezzano, di buon mattino, in una valle addormentata e fresca che raccoglie favole antiche e lavoro di campi. L’inizio non è entusiasmante per il traffico( doppia corsia) ma dopo pochi chilometri la strada si restringe : diventa la statale 17 dove ci stò a mio agio con un traffico fortunatamente scarso.
    Raggiungo Città Ducale con la sua stupenda Torre Angioina(regno di Napoli)che resiste a dispetto del tempo e degli uomini, poi Terme di Codiglia con la sua acqua solfurea(ne avverto ancora il suo sapore a distanza di giorni), Andragogno un paese addornato a festa perchè FESTEGGIA IL 190° ANNIVERSARIO DELLA PRIMA BATTAGLIA PER IL RISORGIMENTO(non lo sapevo).La strada si inerpica piacevolmente e l’aria si fa fresca. Nuvole minacciose, presagio di temporale in arrivo, mi tengono all’erta. La natura è rigogliosa e a parte i proverbiali luoghi di culto(capitelli) che però offrono al viandante una sosta e il ristoro di un sorso d’acqua, non ci sono abitazioni che la contrastino. Per decine e decine di chilometri regna sovrana la vegetazione(altro che da noi dove tutto è cementificato).
    L’Aquila è ormai vicina. E’ lo scopo del mio viaggio. Nella periferia, si notano già le prime ferite sulla città, i danni del terremoto. Si fanno notare(e come?) anche un via vai di camionette della polizia e dei carabinieri segno di detterenza e controllo verso chiunque voglia entrarci, segno che la Città è tutt’altro che libera.
    A due chilometri dal centro la strada sale e alla fatica si aggiunge una pioggia insistente accompagnata da roboanti tuoni. Mi fermo in piazza Duomo sotto una pensilina di servizio. Lo spettacolo che mi si presenta è desolante: in fondo un tendone bianco con una grande scritta: “Riprendiamoci la Città”(?,)segno di speranza e di lotta. Dietro, il tendone della protezione civile, con auto e furgoni e dappertutto macerie e impalcature, impalcature e impalcature di tubi metallici, pali di legno, tra una casa e l’altra che reggono le sorti di muri danneggiati come squarci di ferite in un “corpo” dissanguato dal tempo e dalla burocrazia, un corpo che giace in attesa di una improbabile rianimazione.
    Da uno sguardo d’insieme ho l’immagine di una città priva di vita, dal silenzio agghiacciante, sospesa come in un palcoscenico in attesa della recita. La “proteggono” cancelli di sbarramento, vie inaccessibili, soldati di leva, ma nello stesso tempo la incarcerano, le tolgono l’anima, rendono pericolante il suo futuro più dell’atroce destino che “le” è capitato: tutto oltre la fantasia e l’immaginario di quello che già avevo visto nei filmati, nella stampa, nel film: “Draquila”..
    Cerco un posto per ristorarmi. Quasi di fronte c’è un bar aperto. Bevo un caffè, chiedo informazioni per pernottare. Risposta:”non ci sono alberghi al centro(ma uno c’era, per me troppo costoso), ma solo nella periferia”. Vago sotto i portici della Banca d’Italia, edificio perfettamente intatto(quando si dice che i soldi possono tutto…) con lo sguardo disperatamente rivolto agli edifici incartati e alle strade deserte.
    Blocchi di militari mi consigliano prudenza, l’acqua che scorre a fiumi pure. A caso, l’istinto mi porta nel luogo(via xx settembre) dove c’era l’albergo dello studente ormai completamente ridotto a cratere.
    A limitarne l’entrata una inferriata dove sono appese le foto delle ragazze e ragazzi dello studentato. Vite giovanissime, visi splendenti, assassinati
    dall’ignominia di uomini criminali. Una signora anziana depone pietosamente dei fiori. Le parlo. E’ una mamma. Mi indica il suo figliolo nella foto ormai sgualcita dal tempo. Cerco qualcosa nelle tasche per lasciare un segno della mia commozione: una spilla donatami a Trento. Ho tanta rabbia e con un filo di voce La saluto. Vado di fretta (perchè piove)verso l’albergo indicatomi. Lo trovo finalmente questo albergo di nome “azzurro”(pure questo mi tocca!!). Settanta euro a notte con colazione. Dentro un gran numero di sfollati dalla città. Li riconosco dal loro vestire trasandato e dall’aria sperduta. Vecchi. Hanno faccie di chi non ha futuro, di chi aspetta la morte.
    Mi informo sulla loro condizione e sul perchè a distanza di un’anno sono ancora fuori casa. La risposta è che aspettano il permesso di rientrare. Burocrazia, carte da presentare, stima dei danni, verifica della commissione, lavori di ripristino, nuova indagine di verifica ecc.: sequestrati.Guardo i loro occhi e vedo frustrazione e dolore, rassegnazione che rende l’individuo succube di qualsiasi prepotenza, di qualsiasi ordine.
    Ci dormo sopra a fatica.Il proposito per domani è di andare a visitare tutte le frazioni terremotate, in special modo Onna e Paganica.
    Fortunatamente oggi(sabato)non piove anche se tira una certa aria che gela il cuore e i muscoli. Più mi avvicino a Onna più il cuore mi batte forte. Quello che mi si presenta è desolante: indescrivibile con le parole. Il paese non c’è più, solo macerie e macerie, tante macerie accatastate con qualche moncone di muro in piedi. Dall’altra parte le casette costruite dalla Provincia di Trento, la chiesa e il pianoforte (gesto generoso dei lettori del quotidiano L’Adige). Entro e mi siedo. Sono svuotato di energie. Mi assopisco: mi appare un’immagine di una donna con un fiore in mano, dal corpo minuto che danza nell’atroce paesaggio delle macerie. Una forma di rivolta. Uomo, donna, nella sua figura piegata e dolorosa. Oltre al trauma della distruzione, al trauma di chi ci ha lasciato, al trauma della vita che continua. Mi desto. Ho i brividi e sudo abbondantemente. Esco. Chiedo ad un ragazzino dove abita Giustino Parisse. Lo va a chiedere alla sua mamma. Mi guardo attorno. Casette ben disposte, un villaggio turistico non un paese. Non mi sento di condividere, non so se questa era la soluzione. C’è troppo contrasto a pochi metri di distanza tra il dramma di un paese che non c’è più, i suoi morti e la sua “rinascita”. Il ragazzino mi indica la casetta di Parisse. N.88. Suono. Una signora si affaccia: chiedo cortesemente se posso salutare il giornalista. “non sta bene..ma entri.” Giustino è seduto in una poltroncina, televisore acceso sul giro d’italia(oggi si sale sul Gavia), sul muro di fronte le foto dei figli scomparsi(Domenico e Maria Paola): bellissime. Si alza di scatto. Mi presento. Gli dico chi sono e perchè sono venuto a trovarlo: ho letto tutto quello che ha scritto sulla tragedia DELLA SUA FAMIGLIA, di Onna e de L’Aquila e mi ha colpito la sua capacità di descriverla nonostante l’immensità del dolore per la perdita dei figli e del padre. Facevo molta fatica a parlare.Trattenevo il pianto. Gli ho stretto lungamente la mano. GuardandoLO negli occhi.ho visto OCCHI PROFONDI COME LAGHI. Ho abbracciato la moglie con un gesto di grande tenerezza mentre il mio corpo reagiva con spasmi di pianto.
    Mi ha preso un turbamento pesante, che è difficile separare dalla commozione o collegare alle lacrime che è difficile trattenere e spiegare nella pietas dei sentimenti, nello sconvolgente che ti assale. E’ difficile per me riprendere fiato, compostezza. Giustino prima di lasciarci mi viene in soccorso, stempra la tensione con un regalo: i suoi libri su Onna (“quant’era bella la mia Onna”). Esco trascinando via il mio esile corpo terremotato nello spirito e, in un pietoso sospiro liberatorio riprendo il cammino. Lungo la strada del paese un paziente lavoro di immagini e parole di Giustino Parisse su grandi tabelloni ricostruiscono il “borgo” com’era: bellissimo. Aveva vissuto a lungo per tanto tempo in pace con la natura e gli uomini. Una sola tragedia nel 44 con una brutale esecuzione nazista.
    Paganica è un’altro paese semi distrutto. Il suo centro storico è molto devastato.
    Anche qui edifici puntellati e macerie . Vie inacessibili. Sbarramenti ma niente militari.
    Entro nonostante il divieto in un desolante paesaggio di case come figure umane piegate e dolorose, in attesa di mani, di braccia, di cuore, di assistenza. Proseguo nel mio giro in bicicletta. Vado a Tornimparte, Montereale, Montereale-Verrico, San Gregorio, stessa situazione di Paganica: vigili del fuoco, barriere, case danneggiate, poca gente, silenzio.
    La sera visito i compagni di “Case Matte” a Collemaggio(basilica bellissima dedicata a Maria, dove è stato coronato papa Celestino V°). Una struttura autogestita in uno spazio ospedaliero. Grande animosità per la serata. C’è di tutto: un bar, un centro di informazione con computer, un tendone per spettacoli, tende per dormire. Una bella mostra di pittura.
    Si lotta contro la speculazione, se fa quello che si può mi dice una compagna, importante è esserci, vigilare, tenere alto lo sguardo…Ritorno domani. Preferisco ritornare in albergo prima che riprenda a piovere. Ho davanti un’altra giornata da trascorre a L’Aquila. Domenica il sole è generoso. Il centro si anima di gente che passeggia. Piazza Duomo piena di bancherelle. Le gru della ricostruzione, alte, sembrano sentinelle, opere d’arte. Mi siedo in attesa di una assemblea cittadina e intanto passeggio. Nella via centrale appese alle barriere mettaliche, che delimitano la strada dagli edifici pericolanti, i segni delle lotte della popolazione: chiavi appese a centinaia, bigliettini di poesia e di protesta, disegni di bimbi, foto di persone decedute ecc.; segno che la resistenza è viva, non è stata domata dal “buldoser” Bertolaso. Il tendone si riempie di gente. Molte donne, giovani pochi, uomini maturi, quasi vecchi. Mi prenoto un saluto. Mi è concessa la parola: dopo il “chi sono”, la mia vicinanza al dramma e al dolore vostro che è anche mio. Vogliate permettermi di suggerirvi anche alcune proposte operative che stanno già nel buon senso di chi non ha più niente, DI CHI HA PERSO TUTTO. Niente tasse fino alla ripresa della normalità, richiesta immediata di adoperare tutti i soldi del gioco nazionale, liberare l’ossessione dei controlli e della burocrazia che impediscono a chi può di entrare in possesso della sua abitazione.
    Dovete sentirvi parte di un paese e per questo la richiesta forte che il paese e la politica si facciano carico dei vostri problemi. Non abbiate paura di chiedere perchè non avete colpa di quello che vi è accaduto. Grazie! C’è stato un lungo applauso, poi la discussione è continuata senza di me. Il pomeriggio mi sono incontrato con gli amici dell’associazione “2000 nodi” che avevano un programma la visita guidata alla città. Più tardi incontro con l’assessore allo sport nella splendida cornice della Basilica di Collemaggio al quale ho donato lo stemma di Trento raffigurante l’Aquila.
    Lascio la compagnia la mattina seguente per incompatibilità tecniche. Pedalo contento verso Pescara: ho fatto tutto quello che mi ero prefissato e ora con il cuore ancora colmo di dolore non ha più senso continuare in altri luoghi, meglio la strada del ritorno.
    Antonio Marchi-trento

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